“Domani potrei morire”. Quante volte vi sarà capitato di provare questa sensazione? Magari perché lavorate troppo con la capoccia (per la serie il malato immaginario), o perché, effettivamente, dovrete affrontare qualcosa di difficile.
Comunque quando avvertite quella sensazione (irreale o verosimile che sia) nel vostro capoccione qualcosa accade: cambiate. A me viene voglia di abbracciare il mondo, di aprirmi come una cozza in un guazzetto ai frutti di mare. Che me freca: tanto domani me tocca de murì (cosa importa:domani devo morire)!!!
Ora, domani non morirò di certo… indipendentemente dalla padella che il mozzo utilizzerà per colpirmi. Però oggi ho quella sensazione lì. E necessito di un post interlocutorio con cui salutare il mondo, abbracciarlo e regalargli una parte di me (la potatura delle unghie?!). Innanzi tutto ringrazio di nuovo uno ad uno tutti i followers e i lettori del blog. Sono diventati davvero tanti e molti di loro hanno a loro volta un blog. Ho curiosato nelle loro vetrine elettroniche e ci ho trovato dentro un mucchio di idee, di pensieri, di propositi: in un’unica parola un sacco di vita. E’ un onore per me essere seguito e apprezzato da tutti voi… e tanti di voi sono pure super intelligenti!!! Bravissemi!!!
Una novità per Marco in Padella. Una novità super!!! Il 22 aprile 2014, ore 10.00 inizierò una piccolissima esperienza lavorativa in un ristorante. “Embè, anche io ho fatto il cameriera da Sora Maria”. Sì, anche io lo fecetti (che bello essere il cameriera…). Ma in questo caso vado ad imparare il mestiere in un ristorante… “Sora Maria è ‘na trattoria, perché che c’hai contro le trattorie?!”. Contro le trattorie che c’ho? Non c’ho gnente (niente)! Dicevo… (raschiamento di gola) vado a sficchettare in un ristorante una stella Michelino!!! No, dico, UNA STELLA MICHELINO!!! ‘Naltre paio de stelle e jemo a lo toppe frà (diciamo che si potrebbe tradurre in due differenti modi, quello più opportuno è: andiamo al massimo amico).
Ed ora lu regalittu. Le parole arrosto in schiuma di consonanti e salsa rossa di immaginazione. “E che gorbu adè”? (cosa mai sarà?). Io scrivo. Ho sempre scritto da quando scrivo. Mamma pensava che avevo una malattia perché scrivevo sempre: la scrivite. Fu la scrivite che mi fece fare quelle scritte/murales contro un professore! Fu sempre la scrivite che mi fece reggobire alla Leopardi. Quell’uomo io non lo volevo uccidere! Fu la scrivite!!! Innocente sugnu signor Ggiuddici!!!
Amo la scrittura. Scrivo da sempre. E vi regalo un pezzetto di me. Grazie a tutti per la paziente costanza che avete nel frequentare questo blog.
Spero vi piaccia!
Marco
P.S. si tratta di un racconto volutamente azzardato e irrispettoso, vogliategli bene… i racconti so’ piezz’ e core!!!
Fili, bottoni et altre diavolerie
Dedicato a me.
Alla mia incapacità di ricordare i nomi.
La sera colorava di rosso il cielo nuvoloso di Lornakut. Il sole sembrava essere davvero infuriato. Le tre stelle della sera che brillavano iridescenti all’altro capo dell’orizzonte, trainavano silenziose le redini della notte. La foresta di Rokensarttettermalt riposava; le fronde degli enormi alberi secolari si scrollavano di dosso mollemente la polvere accumulata nell’arco del giorno. E poi lo stagno, dritto e pieno del profilo capovolto del mondo, i prati erbosi, le dune, le stradine di sassi e il ponte levatoio. Oltre lo sguardo del maggiordomo non poteva andare, perché la feritoia da cui osservava cadeva a perpendicolo sul capo del grande cancello d’entrata del castello.
– Essem! – Urlò una voce stridula e insofferente all’altro capo della stanza in cui si trovava il maggiordomo, il cui nome era, appunto, Essem.
– Sì regina, arrivo subito.-
– La smetti di penzolare con lo sguardo oltre la finestra?-.
– Osservavo, regina, se la milizia fosse già di ritorno-.
– “Osservavo, regina, se la milizia fosse di ritorno”… Inopportuno!- Urlò la voce stridula di sua maestà all’indirizzo del maggiordomo, dapprima schernendo l’uomo e poi rimproverandolo con fermezza assoluta.
Lei era la regina Stuttropenkurterlazzittenkat. Figlia dell’oramai defunto Krumigghamentrippew Strulipam, Re di questo e quell’altro territorio, nipote di Prizzenkertattenfruilanzen Prifil, pronipote dell’Arciduca Kruminot Prifeggingernikkertaminez, discendente della potentissima famiglia dei Pruzzinkernazzinkernizzenkuz. Solo per parlare di uno dei quattro rami principali da cui discendeva la famiglia.
Nella stanza rotonda dal diametro infinito di mattoni del Rhuenf (i più resistenti) lo scranno della regnante si ergeva al di sopra di una breve scalinata; quattro o cinque girate di mattoni; un podio largo quasi dieci brusse con un tappeto rosso e d’oro come pavimento. Accanto al piede sinistro della nobildonna una stufetta ardeva alla sua massima potenza.
Attorcigliata nel suo mantello rosso la regina sprofondava nella poltrona di pregiati intarsi di Rovekkinken. Lo sguardo vacuo, la mente assorta. Nelle mani un bicchiere di frizzantissima coca-cola da cui attingeva a cadenze regolari, morbidi sorsi.
– Vieni a riempire il calice.- Disse la reggente con indifferente alterigia.
– Subito sua preziosissima Regina.-
– Quanta ne abbiamo ancora?-
– Tre casse Sua maestà. Tre casse piene.-
– Bene, vorrà dire che rimanderemo tutte le operazioni alla prossima settimana.-
– Sissignora.-
– E non mi dire “sissignora” che mi fai sentire vecchia.-
– Mi scusi vossignoria!-
La regina Stuttropenkurterlazzittenkat guardò il maggiordomo dal basso, si cimentò in un leggero sorrisetto e sussurrò: “bene”. Poi tacque ed intrecciò dietro la nuca il lembo di stoffa che penzolava dal collo di pelo di puppermuz.
* * *
Korigad era seduto al tavolo di legno della sala da pranzo. Accanto a lui la moglie Mefzakkertaf, la figlia, Shishifforkikkermaf e il piccolo Pifforkezzak. Nup, un piccolo ripkif dal pelo bianco, fingeva di dormire ai piedi della sedia di Korigad; attorcigliato su sé stesso attendeva che qualche briciola di cibo cadesse dall’alto.
Ma l’atmosfera era tutt’altro che serena nel piccolo rifugio di legno. Il capofamiglia già da qualche minuto stava discorrendo concitatamente di quella che sembrava essere, al momento, la più grande preoccupazione del paese. Anzi, la più grande preoccupazione di tutto il regno. Batteva i pugni, alzava la voce, inframezzava pause di sospensione, e tutti i presenti, persino il piccolo Pifforkezzak sembravano pendere dalle sue labbra. Mefzakkertaf, la moglie, di tanto in tanto inghiottiva con sofferenza; i suoi occhi, spalancati e atterriti, sembravano ancor più pieni di terrore alla luce irregolare delle candele. Il camino, incandescente e lucido gettava ombre mobili lungo le opposte pareti della stanza.
– Perifigherdirgherzik mi ha riferito che è accaduto anche l’altra sera. Proprio in sua presenza. Alla taverna Sik. Erano presenti anche Popporkopiffignif, Perpakkiokkisfikkik, Erinardgherinardpoffizok e Murikenenozzot.- Diceva in preda al panico Korigard.
– E cosa ti hanno raccontato? – chiedeva la moglie con morboso quanto impaurito interesse.
Il marito fece una lunga pausa, raccolse lo sguardo nei palmi delle mani e si grattò il capo.
– Erano le undici decime circa, era notte completa…
Alla taverna “Sik”
Erano le ore undici decime. L’ora in cui la notte, ormai giunta, diviene completa. E della sua completezza la notte avvolge ogni cosa. La taverna Sik come al solito si era riempita di numerosi ospiti. I focolai erano tutti accesi e sugli spiedi giravano Krakenghin ad arrostire. Nelle numerose stanze divise secondo la tradizione Lorn gli avventori saziavano lo stomaco e consumavano fermentati di cereali. Dai piccoli sfiati d’aria che perforavano le possenti pareti in mattoni della struttura si potevano vedere le tre stelle della notte irradiare della loro luce intensa le pianure circostanti.
Alcuni uomini sedevano al bancone e dagli sgabelli declamavano poesie, intraprendevano discussioni, proponevano teorie. Alle cameriere che di continuo raggiungevano il bancone per caricare i vassoi con i fermentati ordinati dai clienti, questi stessi uomini sussurravano parole allungando di tanto in tanto le mani. Le cameriere sfilavano via veloci con un sorriso stampato in bocca che denotava personalità e completo disinteresse: loro erano lì per lavorare. Punto e basta.
Perpakkiokkisfikkik era giunto lì di buon ora quella sera. Aveva poggiato il suo sederone allo sgabello verso le nove decime ed aveva subito ordinato del kif. Poi lo aveva raggiunto, come era oramai consuetudine, Popporkopiffignif, ed avevano incominciato a parlare.
– Tu vorresti farmi credere che quegli animali a quattro zampe che allevi sono dei bladengik?- Chiedeva dubbioso Perpakkiokkisfikkik all’altro.
– Sono meglio dei bladengik, sono dei kuro bladengik.-
Ora, per chi non lo sapesse, i kuro bladengik sono dei bladengik dotati di code molto più grandi del normale, (code che ricrescono, ovviamente, se staccate), coperti da pelo color marrone, come quello dei loro cugini, i bladengik appunto, ma dal carattere molto più irascibile rispetto alla specie di taglia minore.
– E tu mi vuoi far credere di saper badare a un bladengik? Anzi a un kuro bladengik?-
– Certo che so badare a un kuro. Ti dico che li allevo da anni ormai!-
Al ché Perpakkiokkisfikkik scoppiò in una grassa risata, catarrosa e lenta, una di quelle risate in parte dovute all’indole prepotente e in parte all’alcol.
– Cosa ridi? – Chiese perentorio Popporkopiffignif.
– Tu, così piccolo e molle, vorresti farmi credere che hai nelle braccia la forza per tenere un bladengik quando gli stacchi la coda?- E di nuovo Perpakkio scoppiò in una grande, fragorosa risata.
Per nulla turbato, Poppor premette gli occhiali sul nasetto e rimase a guardarlo.
– Tu invece che tipo di animali allevi?-
– Io? Io allevo solo kokorzi.-
– E come intrappoli i kokorzi?-
– Con la fune, che domande!- Rispose Perpakkio mostrando falso stupore.
– E quanto tira la fune un kokorzi?-
– Tanto, tantissimo, da strapparti le mani!- Rispose divertito Perpakkio, non sapendo dove volesse arrivare l’altro.
– Bene. E allora perché io dovrei crederti? – Chiese soddisfatto Poppor.
– Perché io sono il doppio di te!- E di nuovo una grassa risata invase l’atmosfera calda della taverna che ora brulicava di clienti. Dal lato opposto del bancone Erinardgherinardpoffizok sibilò una frase sintetica: “siete entrambi dei testimoni inattendibili”. E la discussione si arrestò.
Si fossero accorti prima della presenza di Erinardgherinard in quel cantuccio buio del bancone, Poppor e Perpakkio non si sarebbero messi a discutere ad alta voce e, di sicuro, nemmeno avrebbero poggiato un gomito lungo l’asse di legno su cui Murike faceva scivolare le oblunghe kinere di kif fermentato. Si sarebbero diretti in una delle stanze da bevuta e lì si sarebbero goduti la serata.
Tra i due e Erinardgherinard, infatti, da tempo i rapporti andavano male, molto male. Perpakkio aveva da anni una lite in corso con lui di fronte al Gran Consiglio di Lornakut, lite che era arrivata sino agli uffici del primo del villaggio e che aveva preso una brutta piega per ambo le parti. Gli zigomi di Poppor in più occasioni si erano incontrati con le nocche di Erinard ed avevano sempre avuto la peggio.
Dal canto suo Erinard ci metteva tutto l’impegno possibile per risultare oltremodo odioso. Era sempre distaccato e pungente nelle affermazioni, privo del minimo rimorso e spietato al punto che, per dirla con Perpakkio, il piccolo ripkif di famiglia era stato freddato da Erinard con una frecciata perché sorpreso nel terreno di sua proprietà. Roba terribile per uno come Perpakkio, roba da far venire il tremolio ai polsi.
Perpakkio fece un cenno a Poppor, come per invitarlo ad alzarsi ed andare altrove.
– Che il testimone abbandoni la stanza! – Sentenziò il tipo al bancone imitando la voce seriosa di qualcun altro e ridacchiò sommessamente.
Fu un attimo. Perpakkio vide sé stesso e sua moglie nella stanza di escussione al Gran Consiglio, vide i suoi occhi bassi e intimoriti dalle parole del decisore, vide il suo piccolo ripkif adagiato mollemente sul dorso di una duna, la spina dorsale spezzata dal dardo, e si girò in preda ad una rabbia sfrenata.
– Ora vedrai cosa significa prendersi un dardo nelle ossa!- Urlò verso Erinadrgherinard che lo guardava sorpreso all’altro capo del lungo bancone. Perpakkio mosse la sua massa poderosa verso l’avversario, tirò fuori dalla fodera un coltello luccicante che s’impigliò più volte nella stoffa del cappotto, scansò delle sedie che ostruivano il suo passaggio e urlò a squarciagola “grande bastardo ora lo vedi cosa ti succede!”.
Erinard era attonito, bloccato sul suo sgabello con la mascella spalancata per la tensione. Poppor dietro ai suoi occhialetti cercava ancora di capire cosa stesse per accadere. Poi lo vide. Vide Perpakkio divellere due sgabelli inchiodati a terra, lo vide avanzare inarrestabile con la mano sinistra che sembrava afferrare l’aria e la destra che brandiva un coltello, lo vide vicino, vicinissimo ad Erinard, lo vide sferrare il colpo con tutta la forza che aveva in corpo. E poi, dopo un attimo, non lo vide più. Perpakkio era sparito.
Di nuovo a casa di Korigad:
Tutti rimasero ammutoliti al suono delle parole di Korigad.
La moglie, ghiacciata ed afona, fissava il marito con una profondità infinita tanto che più che il marito, sembrava voler scrutare la parete che si trovava alle sue spalle. Shishifforkikkermaf faceva oscillare la sua attenzione dal viso dell’uno al viso dell’altro genitore cercando di reperire nelle loro espressioni indicazioni idonee a farle affrontare la paura infinita che sentiva crescere nel petto. Anche il piccolo Pifforkezzak si stringeva al braccio rotondo della madre mentre il mento gli tremolava senza sosta.
La stanza fu attraversata da un interminabile silenzio che si interruppe al suono improvviso del pianto accorato di Pif. Come riemersa da un’apnea che non ricordava di aver intrapreso, Mef tornò in sé con un affamata inspirazione; abbracciò il bambino e carezzò il capo della figlia. Il marito si alzò di scatto e, in piedi alle loro spalle, cinse le tre persone con le sue braccia come a volerle proteggere da un male invisibile eppure presente.
– Buona notte, Mef. –
– Buona notte Kori. –
I due coniugi si scambiarono un saluto prima di coricarsi. La stanza era illuminata parzialmente dalla luce fioca della candela che traballando e arrocciolandosi descriveva sul muro l’ombra irregolare e appuntita del cappuccio triangolare di Korigad e del pon-pon posto alla sua sommità. Poco distante si muoveva lentamente l’ombra rotonda delle braccia di Mef, dei suoi lunghi capelli e della spazzola che li stava strecciando. Si alzò velocemente dal seggiolino a tre gambe su cui era seduta e si avvolse nella veste notturna, manifestando la sua protesta contro il freddo attraverso dei sibili continui e secchi. Soffiò sulla lampada che si spense con un rantolo fumoso. Alzò le coperte e si infilò nel letto, accanto al marito. Si strinsero le mani.
– Kori, che cosa pensi possa essere accaduto a Perpakkio? – Il marito stette zitto per qualche attimo, indeciso su cosa rispondere.
– Ho parlato con Poppor e con Perifigherdirgherzik, il proprietario della taverna. – Poi fece una pausa. – Perifigherdirgherzik ha detto che non ha visto nulla, che non era lì, che lui non ne sa niente. – Altra pausa. – Poppor, invece, Poppor… era proprio lì, lì davanti, capisci! È stato sentito dal Gran Consiglio. – Pausa. – Lui non ha saputo spiegare nulla. Era come svuotato… –
– Come “svuotato”? Che significa? – Chiese la moglie.
– Io gli ho parlato e lui, lui era fisso nel vuoto, era confuso. Il dottore dice che può essere stato il trauma che ha subito. Insomma, l’unica cosa che Poppor mi ha saputo dire è stato che “un attimo Perpakkio c’era e l’attimo dopo non c’era più”; “un attimo Perpakkio c’era e l’attimo dopo non c’era più”, ripeteva sempre questo. E sua moglie era lì che piangeva. –
Korigad sentì un nodo salirgli in gola, ingoiò e lo rimandò da dove era venuto. Accanto a lui sua moglie piangeva silenziosamente.
– Non preoccuparti Mef, vedrai che troveranno la causa di tutto ciò. – Ma Mef non rispondeva, continuava a piagnucolare e basta. – Mef, vedrai che troveranno la causa di tutto ciò e troveranno anche Perpakkio. – Ma Mef non ne voleva sapere di smettere. – Avanti Mef, non continuare così!- Mef smise di tremolare e fece un profondo respiro: – Perpakkio non è il primo, ho sentito che già altre persone sono sparite prima di lui; sono sparite a Logtog, a Premukin, sono sparite anche a Turnaxix. E chissà quanti altri si sono volatilizzati in altri paesi più lontani! –
Korigad rimase in silenzio, si rannicchio su se stesso e rimase a guardare il soffitto della camera. Passarono alcuni minuti, poi l’uomo si poggiò sulle braccia e si mise seduto sul letto col pon-pon del cappello conico che gli penzolava da un lato: – Lo troveranno Mef, lo troveranno, ne sono certo e non abbiamo nulla da preoccuparci… – Ma non riuscì nemmeno a completare la frase che già non era più lì. Mef dapprima lo chiamo delicatamente: – Kori, Kori… cosa dicevi? Ti sei appisolato?- Poi non sentendo alcuna risposta si alzò anche lei dal letto mettendosi seduta: – Kori! Kori! Urlò incredula verso la parte del letto prima occupata dal marito. Allungò la mano nell’aria buia della stanza per cercarlo, ma Korigad non era più lì e ciò che rimaneva di lui era soltanto il tepore leggero delle lenzuola che il suo corpo aveva scaldato sino a pochi attimi prima.
E poi al castello:
– Oggi ho voglia di compere, – esclamò squillante la regina, come cercando il buon motivo che l’avrebbe spinta a scendere dall’enorme soppalco, – compere, compere, compere!-.
Le parole stridule della sua frase rotolarono lungo gli ampi locali del palazzo riecheggiando alla rinfusa per poi spegnersi in un angoscioso silenzio. Nessuno rispose.
Allorché la regina, raggiunta da una collera incontenibile, puntò i pugni sul letto stringendo con le unghie sottili le coperte e perforò l’aria con un unico terribile suono:- Essem!-. E la emme finale, che sembrava non finire mai, raggiunse le orecchie del maggiordomo come un colpo attinge la preda.
Il factotum di palazzo se ne stava seduto su di una vecchia sedia di legno e vimini posta al livello del suolo, col braccio poggiato sulla spalliera a sostenere il capo. Gli occhi chiusi e il profondo russare non lasciavano dubbi sul fatto che ci si trovasse di fronte ad un uomo che dormiva.
– Essem! Sai benissimo che quando ti chiamo devi essere subito a disposizione. E subito significa “ora” e non “tra un po’”!- Tornò ad abbaiare la regnante con una potenza vocale davvero unica.
Essem, confuso dalla valanga sonora e dallo stato di dormiveglia, scivolò giù dallo schienale della sedia su cui riposava finendo a terra. Cercò di capire dove si trovasse e se il paesaggio di Nomirtak che stava sognando fosse o meno la realtà. Si riebbe e tornò in posizione verticale. Il suono della voce della regina continuava a saturare tutta l’aria mentre Essem afferrò il bastone rosso del lavoro ed iniziò la sua corsa verso la stanza di sua maestà. Fece le scale a tre a tre e poi, continuando a sentire il richiamo della padrona, a quattro a quattro, ma ella continuava ad urlare ed a lamentarsi senza sosta. Tornò sui suoi passi, imboccò un lungo corridoio, salì di nuovo verso un piano ammezzato e fu lì, ansimante e trasandato. Si stirò la giacca e acconciò i capelli con un pettinino d’osso che serbava in una tasca interna del gokot, fece un inchino e disse sommessamente:- Chiedo perdono, vostra maestà, ma ero appisolato e sognavo le terre di Nomirtak, sa, le terre dove sono nato…-
La regina era seduta sul letto con in mano uno strano aggeggio a forma di cono da cui la sua voce usciva amplificata di cento volte. Sua maestà lo interruppe inviperita continuando ad urlare nel megafono:- non mi importa quali terre tu sogni ed i motivi per cui queste si manifestano nella tua testa, io voglio, io pretendo che quando ti chiamo tu sia qui. Subito. Istantaneamente!- lasciò cadere il frastuono di parole nel silenzio e poi aggiunse:- e non mi chiamare più “vostra maestà”!- Le ultime sillabe frissero in aria per alcuni secondi poi tornò a regnare il silenzio.
Tornata la quiete nel castello, se di quiete si può parlare, arrivò anche il tempo di decidere l’attività della giornata. La regina già l’aveva detto: compere, compere e compere.
– Le coperte.- Si limitò a dire la regina con gli occhi rivolti altrove.
Essem le scansò il lenzuolo di lato, le tenne la mano e la fece scendere dal baldacchino in cui aveva passato la notte.
– Nella “stanza”.- Ordinò compiaciuta sua maestà.
Al che il maggiordomo assunse un’espressione tremendamente contrariata e contrasse in un attimo tutti i muscoli del viso come per trattenere una reazione dirompente. Sulla punta della lingua si formò una frase: “ma come vostra maestà, non si era detto di prendere la Coca Cola tra una settimana”. Ma le parole gli si sciolsero in bocca. La malata fissazione della regina per la stanza, era un’abitudine ben nota ad Essem. Sua maestà aveva una ineludibile necessità di entrare quotidianamente in quel locale e rimanervi per ore ed ore.
Essem fece strada col bastone di legno rosso in mano; girò a sinistra e poi di nuovo a destra, percorse un corridoio in discesa e quindi una serie di scalinate in salita. Di nuovo a destra e poi ancora a sinistra e quindi di nuovo in alto: alla fine si ritrovarono di fronte alla pesante porta di una delle appuntite guglie del castello. Il maggiordomo aprì lo strano meccanismo che bloccava l’entrata. Girò una pesante ruota di ferro che muoveva dei pali di legno infilzati nelle mura e furono nell’enorme stanza.
Come al solito, Essem prese posizione su di un piccolo sgabello posto subito dietro all’enorme portone d’ingresso, mentre la regina avanzò nel centro del locale in cerca di qualcosa.
Posò il suo ingombrante posteriore su uno scrannetto snello e variopinto che si trovava di fronte ad un tavolo di noce scuro. Spostò la seduta da sé, senza avvalersi dell’aiuto del factotum, quasi a proteggere la sacralità di quella situazione.
Sedette ed allungò le mani su di una cassetta rinforzata di legno pesante. Cavò dal collo una chiave dorata e se la sfilò per usarla con quella specie di cassa forte; cercò un’altra chiave nell’incavo nascosto del tavolo dove sedeva e la usò con la medesima cassa. Il meccanismo scattò e lei sorrise beffarda:- proprio bravo quel mastro. Peccato sia già morto!-
– Eroforkikkenbef, signora.-
– Sì, Eroforkikkenbef. Proprio bravo. Era…- E sorrise di nuovo.
All’interno della cassa un’altra scatola di metallo ed un foglietto ripiegato. Poggiò il pezzo di carta sul tavolo e visionò la scatola attentamente. Spostò delle levette presenti lungo il dorso del contenitore come solo a lei era noto ed udì di nuovo un “click”. La scatola si aprì e ne trasse fuori un aggeggio singolare di metallo, colorato principalmente di blu, munito di tasti anch’essi colorati dal rosso, al nero, al bianco e di un rettangolino grigio che sembrava uno specchietto.
La regina pigiò un tasto e la macchina s’illuminò improvvisamente emettendo un suono cristallino. Sua maestà sibilò in un forellino dell’aggeggio il suo nome e il marchingegno prese ad avviarsi.
All’altro lato della stanza Essem guardava fisso la regnante che sedeva di spalle di fronte ai suoi occhi. – Roba del maligno, – si limitò a sussurrare – roba del diavolo!- E strinse con forza il bastone di legno rosso che aveva tra le mani.
Spavalda la regina si girò verso di lui un po’ per controllare cosa stesse facendo e un po’ per compiacersi del fatto che era riuscita ancora una volta a far funzionare quello strano macchinario venuto dal nulla.
L’aggeggio rumoreggiò per qualche secondo, s’impuntò, ripartì ed infine, come nelle altre occasioni, materializzò sullo specchietto di cui era munito un cursore lampeggiante. Sua maestà sorrise girandosi nuovamente verso Essem.
Si trattava di inserire dei simboli presenti su ogni singolo tasto del macchinario combinandoli tra di loro. Alcune combinazioni sembravano funzionare, altre invece, non venivano accettate. Per la regina Stuttropenkurterlazzittenkat era diventato un gioco provare ad inserire combinazioni su combinazioni per vedere se funzionavano. Un gioco cui non sapeva più dare freno.
Aprì il foglietto che aveva preso dalla cassa e ne esaminò il contenuto: righe e righe di successioni di simboli assolutamente prive di senso. Ad ogni simbolo corrispondeva un tasto dell’aggeggio luminoso. Scorse le righe bramosamente.
– Questo… questo, questa è per la fodera nera e rotonda, questa è per il liquido profumato… Vediamo un po’… Eccola qua! Bevanda nera con bollicine..- e cominciò a digitare i vari simboli nella successione giusta.
Intanto Essem continuava ad osservare ogni mossa della regina con uno sguardo torvo e penetrante.
Sua maestà compose una riga di circa trenta simboli successivi e si preparò a pigiare lo specifico tasto che dava il via all’operazione. Si girò verso il maggiordomo ed esclamò: caro mio anche oggi ne cancelliamo uno- e premette il tasto.
Mentre Essem digrignava i denti colmo di rabbia accanto alla massa corpulenta della regina apparve un cubo avvolto in una carta trasparente che ondeggiando per alcuni attimi tornò in una perfetta posizione verticale, lasciando intravedere la scritta bianca e rossa “Coca-cola”.
Il maggiordomo abbassò lo sguardo sconfortato, e sua maestà batté le mani come una bambina soddisfatta. Gli occhi le brillavano di una gioia irrefrenabile.
– Ora proviamo a comprare qualcosa di nuovo!- urlò rapita la regina.
Essem spalancò gli occhi e sentì una rabbia irrefrenabile pervadere ogni cellula del suo corpo.
La regina provava ad inserire simboli su simboli, ma nessuna combinazione nuova sembrava funzionare: – incapace di un attrezzo inutile,” urlava al marchingegno acceso che stringeva con entrambe le mani, “sei stupido come chi ti ha costruito!-
Ad ogni tentativo non riuscito Essem tirava un respiro di sollievo. Ma ad ogni combinazione non utile ne seguiva subito un’altra ed un’altra ancora, in un’attività febbrile che la regina portava avanti con infinita ostinazione.
– Cosa fai? Ti compiaci del mio fallire?- gridava sua maestà nei confronti del maggiordomo. E poi ancora – cos’è, sospiri per ogni tuo compaesano salvato?-
E ad ogni fallimento della padrona, ad ogni immancabile successivo sfogo avvelenato il maggiordomo sentiva di nuovo una rabbia selvaggia salirgli fin dentro le ossa.
– Tanto anche oggi devo trovare qualcosa di nuovo…- Continuava a dire la regina con una voce sibilante e addolorata.
Alla sinistra del grande tavolo di noce erano stati riposti una serie infinita di oggetti, frutto di una intensa attività di acquisti avvenuta in tempi precedenti. C’erano, ruote di ogni dimensione, materassi, attrezzi da lavoro, sagome di legno, tubi e assi di alluminio, ingranaggi, viti, barattoli, confezioni di detersivi, sedili, luci, vasi, vernici, scatole di biscotti e caramelle, residui di ortaggi andati a male, pile, stuoini e scendiletto, asciugamani, tergicristalli e una moltitudine indistinta di altre suppellettili che da terra toccavano il tetto altissimo della stanza.
Essem guardò la mole infinita di oggetti inutili depositata alla rinfusa accanto al tavolo dove la regina sedeva ed ebbe un sussulto. Pensò ai suoi compaesani finiti chissà dove in cambio di una confezione di rotoli di carta e si alzò in piedi.
La regina lo sentì e con la prontezza di un felino torse di lato il capo per scrutare cosa stesse accadendo.
– Siediti Essem. Non puoi alzarti senza il mio permesso. Soprattutto quando siamo qui. Sennò ci metto un attimo a far sparire anche te.
Il maggiordomo rimase interdetto per un istante. Ingoiò la poca saliva che aveva in bocca e disse: chiedo scusa, vostra maestà, ma ho dimenticato tale direttiva.- Ma alle parole non seguirono le azioni.
– Troppe cose dimentichi Essem. Principalmente quella di non chiamarmi “vostra maestà”. Quando le milizie saranno di ritorno prenderò dei seri provvedimenti.- E tornò a digitare successioni di simboli senza dire nulla al maggiordomo circa il suo non essersi seduto.
Essem rimase in piedi a guardarla, come un lupo guarda la sua preda, senza muovere un muscolo, senza emettere un suono.
– Va bene, significa che per il momento compererò quello che ho nella lista e poi riproverò con delle nuove combinazioni. Forse sarò più fortunata!- Ed iniziò ad inserire uno dei codici a lei noto.
Il maggiordomo la guardò premere quei tasti colorati. Ad ogni “click” dell’aggeggio sentiva la morte prendere forma. Che si fosse portata via lui o un altro suo simile poco importava, comunque qualcuno si sarebbe disintegrato per colpa di quella strega.
Mosse un passo verso il centro della stanza, ma lei non se ne accorse neanche, assorbita dall’operazione cui si stava dedicando completamente.
– Ancora uno, ancora un altro.. ecco ne rimangono ancora pochi. Cinque, quattro…-
Essem strinse con tutta la sua forza il legno rosso del bastone che teneva tra le mani e lo alzò verso l’alto. Avanzò in quella posizione sino alle spalle della regina. Sino ad un passo da lei.
– Ne mancano due.. uno..-
Torse il tronco e inspirò profondamente, ma la regina non lo sentì affatto incombere dietro di lei, tanto era vicina al suo obiettivo.
– Eccolo, l’ultimo simboletto..-
Essem serrò le labbra e liberò il colpo.
* * *
In quello stesso istante, in quel medesimo ed identico momento, da tutta un’altra parte dell’infinito universo che ci avvolge, la piccola porzione di spazio vuoto che si trovava di fronte ad una delle fermate dell’autobus di Piccadilly Circus fu improvvisamente occupata da una massa che trovò posto tra un corpo e l’altro di coloro che in paziente attesa si accingevano a salire sul bus n.19.
L’apparizione, se così possiamo definirla, non generò alcuno specifico clamore tra la folla, in quanto essa avvenne proprio nell’esatto momento in cui nessuno poté vederla e nel preciso ritaglio di spazio libero messo a disposizione dagli astanti presenti alla fermata.
Mrs Mellot e il professor Horthmuner vennero leggermente sospinti dal corpo che si era materializzato un attimo prima accanto a loro e si girarono per osservare chi fosse il villano che, con azzardata prepotenza, si permetteva tale comportamento.
Tra di loro stazionava un omone corpulento in quella che sembrava essere, senza dubbio alcuno, una camicia da notte. Indizio certo ed incontrovertibile della deduzione era il cappuccio triangolare con un pon-pon alla sommità che costui indossava al capo. L’espressione del tizio era, poi, del tutto singolare: gli occhi persi nel maxi-schermo luccicante della piazza posto a mezz’aria di fronte a lui, la bocca completamente spalancata e le mani aperte e tese come in segno di totale sconfitta. Sì, non c’era alcun dubbio quella era la classica espressione di chi può essere definito un uomo stupefatto.
p.s. non vi dico quanto ho penato per giustificare ‘sto racconto!!!
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