crostino con fegato d’oca, limone candito e riduzione di miele e sapa

8 Set

Crostino di fegato d'oca

Ao so’ vivo!!! Esisto!!! Cucino!!!

Ve pareva che m’ero dato alla macchia, che avevo abbandonato il blog ad un infausto destino…e invece col piffero! Ecchime chi (qui). ‘Ncarognitu come ‘na macchia de ceresce (testardamente pervicace come la macchia delle ciliegie)!

Annamo subito di ricetta. Ma prima un prologo: in questo lunghissimo periodo di assenza cosa ho fatto: c’ho ‘na fija (figlia), un lavoro, i doveri del coniugio: c’ho da fa’. E non potei scrivere. Non ne ebbi il tempo. Mapperò ho mangiato, provato e cucinato in ogni momento libero che avevo. Da ultimo mi son detto: amo’ devo impara’ a fa la cacciagione, i volatili, la roba meno comune. Il core (cuore) me se stringe a penza’ (pensare) che il cuntadì me ‘mmazza lu viru (il tacchino) proprio per me (l’immagine del tacchino che libero scorrazza pe’ lo campo senza sapere che il giorno successivo sarà pasto dei miei commensali mi dà davvero fastidio, ma così è e lo accetto; fine).

Allora ho iniziato con il piccione che nella città che mi ospita è una pietanza piuttosto comune e tradizionale. La mia città natale è la città “de li pistacoppi” (ossia dei piccioni). Mia nonna il piccione lo cucinava sempre. A scuola andavo in classe con uno che di cognome faceva Piccioni. Mi piace il tenente Colombo; del quale non ricordo quali comici americani fecero una parodia dal nome “il Tenente Piccione”. Per distruggere la mia abitazione (qualora la dovessi distruggere un domani) di certo userei il piccione al posto del piccone… Però il piccione m’è venuto così così…

Allora sono passato ad altro volatile. Dico: che se po’ magna’ (mangiare). La mia città ha come santo protettore il santo più strambo che io conosca. Quando ero piccolo nonna mi raccontava le storie di questo santo, non per farmi dormire, ma per spiritamme (impaurirmi). San Giuliano. No dico, un santo che per prima cosa ammazza i genitori. Un serial killer. Ma santo. E ‘sto santo non è che ne combina una, ma ne combina tante. Tra le varie vicissitudini c’è quella della papera. In brevissimo: la papera je sarva (gli salva) la vita, lui je vole un gran be’ (gli vuol tanto bene), arriva una famija de poracci affamati… e la papera non c’è più. The ende. Quindi a San Giuliano (31 agosto) da noi se magna la papera. Sempre.

Ora. La prima cosa da capire è: la papera cosa è? Un’oca? Un’anatra? Approfondii. Lo chiesi alla cuoca della pro-loco de suppiazza (dello stand sito nella piazza dell’orologio). Una garanzia. Ella, con fare minaccioso mi disse:- la papera è anatra eppunto. Non ce prova’..- e mi mando via. Cosa intendesse ninzò.

Quindi: alle Marche no’ je freca gniè del resto dell’Itaglia (non importa alcunché del resto del resto dell’Italia). Nelle Marche la papera è un’anatra. Fuori dalle Marche invece, la papera è un’oca giovinotta. Conferme ne ho avute da diversi soggetti. Tra di loro un allevatore che chiameremo col nomignolo di Lorenzo. Ello sfama giovini volatili in quel di…vicino a dove sto io. Ello è bravissemo. Ello mi ha fornito la papera. E mi ha detto: dentro (riferito al corpo dell’animale) te c’ho lasciato lo stomaco, il cuore, i reni e il fegato…però il fegato è dell’oca. Ma come?!! E perché?! Ma che significa?! Proprio il feteco (fegato) m’hai sostituito! Ma è la parte più buona che… Ma questo non glielo dissi. “Ao, e quanto la fai lunga pe’ na ricetta!” direte voi. E avete la ragion veduta!

La ricetta:

Tempo: “e che ce vòle” (20 minuti)

Porzioni: “pe’ 3 e menzi” (3 persone e mezza)

Difficoltà: “tuntu” (principiante)

Ingredienti: un fegato d’oca contenuto in una papera (ovviamente sto scherzando), del burro (20 grammi circa), salvia, pepe, olio, sale, buccia di limone non trattato (come se fa a sbavasse tra un trattato e un limo’ me lo dovete spiega’), miele e sapa cubbì (quanto basta). Eventualmente: micro pezzetto di pipiloncino.

Prima cosa: che d’è (cos’è) la sapa? La sapa… (anche detta saba) sa di televisore. La sapa è un succo scuro derivante dalla bollitura del mosto. Zio Gustì me la faceva mangnà co’ la polenta; non me piaceva (parentesi: tanti di voi conosceranno “li sughitti”, ossia una polenta fatta con il mosto d’uva). E’ un ingrediente della cucina povera contadina che spesso fa da tramite tra il dolce del mosto e il salato delle pietanze (se stavene avanti ‘sto contadini de ‘na volta!). Da piccolo, come detto, non mi piaceva. Ora la adoro. Forse perché mi ricorda la casa di ziu Gustì. Ciao zio, sei stato mitico!

Esecuzione:

Per prima cosa prendete il feteco d’oca. Guardatelo: esso è brutto. Pulitelo da eventuali filature turgide che potrebbero rendere sgradevole la consistenza bocchea (maronna che linguaggio di proprietà!). Prendete una padella bassa e scaldatela a fuoco medio oppure abbracciatela forte forte. Filo d’olio. Buttatece drento la salvia…se volete un micro pezzetto di pipiloncino, poi mettete il fegato. Esso è brutto. Esso deve cuocere pochissimo, tenuto conto del fatto che è molto sottile. Fiamma alta, trenta, quaranta secondi per lato. Non appena la crosticina esterna si sarà formata levate il fegato dalla padella e poggiatelo su un tagliere. Tagliatelo sottilmente. Poi trituratelo ancor più finemente, magari utilizzando una mezza luna. La consistenza pastosa del fegato renderà il composto cremoso ma non omogeneo. Sennò sembrerebbe quel paté che se compra al supermercato! Quando è ancora caldo infilatelo in un contenitore (i barattoli di vetro Fido fanno al caso vostro!)  e poggiateci sopra due-tre pezzetti di burro. Rigirate il composto nel barattolo e una volta freddo mettetelo in frigo. Per l’uso: tiratelo fuori pochi minuti prima e scaldate il barattolo in una casseruola con acqua calda: il burro si scioglierà un poco e l’impasto tornerà bello pastoso come se fosse stato cucinato in quel momento.

Per le zest di limone, tagliate la buccia dell’agrume evitando di includere la parte bianca (questo ormai lo sanno anche i muri!!!), e fate delle striscioline sottili. Mettere sul fuoco un padellino con tre cucchiai di zucchero e uno di acqua (io vado a occhio). Quando il composto si schiarisce versate le striscioline di limone e fate bollire per qualche minuto. Non troppo altrimenti lo zucchero caramella e il limone diventa duro. Per capire il momento giusto per spegnere la fiamma fate così: prendete con la punta della forchetta una goccia dello sciroppo che sta bollendo e poggiatela su una superficie di acciaio; poi alzate la punta della forchetta: se si forma un piccolo filo di congiunzione tra la punta della forchetta e la superficie d’acciaio allora è ora di spegnere. Se non si forma alcunché è troppo presto. Se si forma una specie di “ciotta” (sasso durissimo e arrotondato) allora siete fregati!

Appena levate le bucce dal fuoco, poggiatele su un colino in modo che il liquido sciropposo possa colare via. Spruzzate un pizzico di sale sulle bucce e lasciatele asciugare (ottimo sarebbe il sale Maldon affumicato).

Ripigliate il pentolino di prima (pulitelo!). Metteteci dentro due cucchiai di miele e due di sapa e un pochino d’acqua (un cucchiaino potrebbe bastare) per diluire leggermente il composto. Fate fremere il liquido e levate dal fuoco.

Abbrustolite un tozzetto di mollica di pane e con il pane ancora caldo componete il piatto come da figura che vi si ammostra!

Ciao cari e a presto!

Marco in Padella

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